Adoro l’aragosta, seducente da viva e squisita da morta. Per fortuna non vivo in Svizzera dove una legge ne impedisce la cottura tradizionale, cioè l’immersione dell’esemplare vivo in acqua bollente. Non è certo che immergendole provano dolore, neppure uno studio commissionato dal governo ha dato una risposta definitiva Il metodo che verrà introdotto a me pare onestamente forse anche più crudele: shock elettrico o colpo in testa per danneggiarne il cervello. Se consideriamo l’aragosta capace di intendere e di volere, o non volere, e consapevole della propria identità, va da sé che probabilmente ha anche la consapevolezza delle possibili modalità della sua morte. Un po’ come noi, del resto: si muore di vecchiaia, di malattia, di incidente. E il momento quando arriva arriva. Si sarebbe innescato, in pratica, un processo di antropomorfizzazione delle aragoste.
La prima volta che mangiai aragosta mi trovavo a Cape Cod, Massachusetts. Per l’esattezza a Hyannis Port, celebre per il Kennedy Compound, sei acri di terreno e tre edifici fronteggianti l’oceano, di proprietà della famiglia che amava trascorrervi le vacanze estive.
Si compravano al porto, si portavano a casa in sacchi di juta. Una volta a casa si liberavano in cucina, la sera venivano gettate in grandi pentoloni e servite con burro fuso caldo. Ricetta semplice ma squisita, grazie anche al fatto che quelle sono tra le aragoste più buone al mondo.
Di buone, anzi buonissime, ne mangio appena ne ho l’occasione , anche l’estate scorsa, a Loch Fyne Seafood & Grill in Scozia. Il fondatore, Johnny Noble ( stravagante propietrario di Ardkinglas House) e il biologo marino Andy Lane, crearono il loro primo allevamento di ostriche (pare siano buonissime ma non ne vado pazza) sulle rive del lago nel 1978, vendendo pesce e crostacei da una bancarella lungo la strada per pagare i conti della tenuta . L’azienda si è rapidamente costruita una reputazione per la qualità e il sapore dei suoi frutti di mare ed è stata presto seguita da un affumicatoio e da oyster bar sulla riva del Loch. Con la crescita della reputazione di questo eccezionale prodotto, è aumentato anche il numero dei ristoranti distribuiti in varie parti del Regno Unito. Sono stata a novembre in quello di Edimburgo, ma non è paragonabile all’originale, dove prima di tornare a casa mi approvigiono anche di salmone affumicato. Ineguagliabile.
L’ultima aragosta, in versione vellutata di patate con bacon e pane croccante, l’ho mangiata da Moa Lobster & Cashmere, a Genova, un ristoshop bellissimissimo, proprio il giorno in cui è andata in onda la puntata di 4 Ristoranti di Alessandro Borghese dedicata a Genova. Inciso: vista la puntata, riconfermo la scelta di Moa. Il titolare è una persona dai modi squisiti, lo ha dimostrato anche nell’esprimere i giudizi. La qualità può sempre essere migliorata ma nel scegliere un locale non mi affido solo al piatto, valuto il locale, il comfort. Tutte cose che Moa ha, insieme all’originalità, considerati gli standard genovesi.
Sono una snob? sono ricca? no, mi piacciono le cose buone. E secondo me l’aragosta è una di quelle. In passato fu considerato cibo per poveri, consumato anche dai galeotti. E non veniva somministrato per più di una volta alla settimana, perché ritenuto crudele, come costringere a mangiare topi.
All’aragosta ha dedicato un capitolo del suo Considera l’aragosta Edgar Foster Wallace, scritto in seguito a una visita dell’autore all’annuale Fiera dell’aragosta nel Maine dove, già lo so, mi troverei a mio agio.
E sempre all’aragosta è dedicata un’opera surrealista di Salvador Dalì, il Telefono Aragosta, realizzato in collaborazione con l’amico del pittore e suo mecenate Edward James. Nella sua versione bianca è stato venduto nel 2016 ad un’asta di Christie’s per 850.000 sterline.
Come scrisse Dalí nella sua autobiografia “La mia vita segreta”: “Perché, quando chiedo un’aragosta all’americana in un ristorante, non mi portano mai un telefono alla griglia? E perché lo champagne viene sempre servito ghiacciato, mentre i telefoni, sempre tiepidi e sgradevolmente appiccicosi, non sono mai serviti in un bel secchiello, appannato e velato di ghiaccio?” …… “Telefono frappé, telefono alla menta, telefono afrodisiaco, telefono all’aragosta, telefono drappeggiato nel visone, per i boudoir delle sirene dalle unghie fasciate d’ermellino, telefono alla Edgar Allan Poe, con un topo morto nascosto dentro, telefono alla Böcklin, installato in un cipresso…telefono al guinzaglio, ma capacissimo di passeggiare da solo, telefono applicato sul dorso di una tartaruga viva …telefoni…telefoni…telefoni…
Elsa Schiaparelli, la stilista che collaborò con Dalí a vari progetti, creò un abito da sera che presentava un’aragosta stampata lungo il davanti della gonna, con la coda strategicamente posizionata all’altezza del bacino. Fu indossato da Wallis Warfield Simpson in una serie di fotografie di Cecil Beaton, scattate poco prima del matrimonio di Wallis con Edoardo VIII.
Nel 2010 Dree, la pronipote di Hemingway, è stata fotografata mentre indossa una maschera aragosta da Richard Burbridge per Vogue Italia.
John Derian, specialista in decoupage si fa per dire, based in new York, ha realizzato una serie di piatti e vassoi a tema aragosta. Piuttosto cari, naturalmente.
Perfetti però per creare l’illusione di stare celebrando qualcosa di veramente esclusivo anche in assenza della materia prima. Un valido aiuto lo può fornire Rita Konig, interior designer inglese e guru del ricevere moderno, per la quale molto sta nel saper creare l’atmosfera, nel modo i cui si presenta il cibo, per fare della casa in cui si vive il paradiso che si è sempre sognato. Per imparare i modi in cui viziarsi.
Come ho fatto io, concedendomi in una giornata fredda e carica di pensieri, una vellutata d’aragosta calda e morbida. Come un pullover di cashmere.