Vita da bibliotecaria: chi cerca trova. Gli Indiani e il Grand Canyon, anche il nostro

C’è sempre stato un momento nella mia vita professionale che ho temuto, e cioè il dedicarsi appassionatamente alle ricerche di storia locale: quelle ricerche minuziose, che ruotano intorno a micro eventi, che tengono i mariti in pensione lontani dalle cucine e dalla supervisione dei cantieri, mogli a ingrigire di polvere. Stupide convinzioni dell’età giovanile. Ora che ho da un pò superato i 50 le rivaluto, buttandomi sul semiserio,  in quanto fonte di piacevoli sorprese,  : di seguito un mio articolo con cui rendo a Cesare quel che è di Cesare.

Lo studioso di storia locale, si sa, cerca e analizza documenti per lo più cartacei, spesso malconci o e frammentari, in locali polverosi e scarsamente illuminati e trova risposte alle proprie domande. La “curiosa” cerca in Internet e cosa trova? Tante ovvietà, banalità ma anche qualche “curiosità”, appunto.
Che appartengo alla seconda categoria lo avete capito e lo dichiaro apertamente. Nulla voglio togliere a chi, negli anni, pazientemente e sapientemente ha saputo riscrivere la nostra storia. Ammetto non ne avrei avuto la pazienza e la capacità. La curiosità sì, e in questo la tecnologia aiuta. Unitamente ad una discreta dose di testardaggine e ad una certa disinvoltura nell’uso dell’inglese.
Capita che, cercando “Ovada” in Internet mi imbatta, come sapete, in un’Ovada africana, esotica destinazione di un viaggio di nozze nel lontano 1947.
Ma capita anche che venga a conoscenza di un libro intitolato “OImmaginevada: an Indian boy of the Grand Canyon”,  un libro per ragazzi, scritto nel 1969 da Harry Clebourne James e, come dicono le recensioni, sapientemente illustrato da Don Louis Perceval. E’ la storia di una giornata tipo del piccolo Ovada, bambino indiano, che aiuta il padre nelle coltivazioni, nell’allevamento del bestiame e nella caccia. Il momento culminante del libro è la gara al galoppo tra Ovada e Gato, il suo migliore amico,a cui assiste tutta la tribù. Avendo avuto una passione giovanile per gli Indiani d’America, che continua oggi e più in generale per tutte le minoranze perseguitate, intuisco che “Ovada” ha un significato preciso, che però ignoro.

Ai bambini Indiani, infatti, il nome viene dato non alla nascita ma non appena manifestano una qualche caratteristica di temperamento, e perlopiù dai nonni con i quali, almeno in passato, trascorrevano gran parte del tempo.

Leggo il libro, che nel frattempo ho acquistato in Internet da una libreria antiquaria: è il resoconto di una giornata tipo del giovane Ovada durante le vacanze estive ma non trovo nulla che faccia riferimento al nome. Mi faccio però un’idea del protagonista che verrà infine, ma solo dopo tante ricerche, confermata.

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Scrivo a varie Università Americane dove vengono conservati i documenti di archivio dell’autore, per esattezza all’Università del Montana e alla Rivera Library dell’Università della California ma i gentili colleghi, Heather ed Eric, non trovano nulla che possa essermi di aiuto.
Ci riprovo con la Biblioteca del Parco Nazionale del Grand Canyon e la collega Eugenia (Jean) Sullivan. Da lei, che ha come assistenti due ragazze indiane, ricavo la speranza di trovare finalmente quello che cerco. Ovada, il ragazzino indiano di cui si parla nel libro, appartiene alla tribù Havasupai che vive ancora lì, per la precisione nell’Havasu Canyon, uno dei luoghi più belli del Gran Canyon. Havasupai significa “popolo delle acque verdi-azzurre”, e infatti prende il nome dall’ Havasu Creek, il fiume che lo attraversa e da cui hanno origine numerose e stupende cascate.

Le piene peraltro sono uno dei problemi del Canyon, soprattutto durante l’estate, e nella cultura Havasupai vengono riportate molte di queste storie di distruzione.  Distruzione a cui contribuirono i bianchi, quando venne scoperto il piombo nella zona del canyon e una marea di minatori si riversò nelle terre degli Havasupai, spingendoli in ambiti sempre più ristretti, sempre meno sufficienti a condurre serenamente l’esistenza di un tempo.Oggi non sono moltissimi e vivono nel silenzio, lontani dalle rotte del progresso, organizzando un piccolo turismo a pagamento e cercando di offrire ai propri figli e nipoti un futuro diverso, da custodi del Grand Canyon.

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Pur rimanendo tenacemente legati alla loro terra, hanno perso molto della loro cultura e così anche le ragazze indiane non sanno rispondere alla mia domanda. Ora che sono arrivata fin qui, non posso e non voglio arrendermi. Anche perché insieme alla ricerca tornano i ricordi legati a bellissime giornate trascorse sulle rive dell’Orba, che scorre nel “nostro” Canyon, ed inevitabili e curiose analogie con la piena provocata dalla rottura della Diga e i rastrellamenti tedeschi.

Ormai ho raccolto elementi tali da poter raffinare la ricerca e infatti trovo quello che cerco. Lo trovo nel saggio “Havasupai Ethnography” di Leslie Spier, pubblicato a New York nel 1928 e digitalizzato dall’American Museum of Natural History. L’autore, antropologo americano. dedicò molto del suo tempo ai Nativi Americani, alle relazioni che intercorrono tra gli esseri umani e le loro culture. In questa ricerca fu affiancato da Jess Checkapanyega che ebbe il ruolo di interprete e con il suo inglese zoppicante lo aiutò a trascrivere tutto quanto riguardasse la cultura di quella tribù. Anche i nomi. Così apprendo, apprendiamo, che Ovada nella lingua Havasupai significa “fuoco, fiamma che arde”. Il che conferma la mia intuizione dopo aver letto la storia, ma non ha nulla ache vedere con il nostro “guado, passaggio”.

Ho scritto perciò ad Eugene, rendendo lei e le ragazze indiane partecipi della mia scoperta, restituendo loro un elemento della loro cultura che ignoravano.

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E ora? Ora niente. O meglio, sappiamo dell’esistenza di un popolo che ignoravamo anche se ciò non cambierà la nostra vita, o la loro. Ma avremo dato il nostro piccolo contributo alla realizzazione di quanto Spier si prefisse con il suo lavoro: la ricerca delle relazioni tra gli esseri umani. E io ho una località in più da aggiungere alla lista delle destinazioni del cuore.

 

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