Nel film-documentario China Blue, il regista Micha Peled racconta la storia dell’adolescente operaia Jasmine Lee. A 16 anni, Jasmine, è costretta a lasciare la sua casa nella provincia di Schicuan, nella Cina sud-occidentale, per recarsi a lavorare in città come operaia in una fabbrica di jeans destinati al mercato occidentale. Insieme a lei Giada, Orchidea e altre a cui i genitori non hanno voluto dare nomi tradizionali cinesi e che spesso hanno documenti falsi forniti dal datore di lavoro perchè hanno meno di 16 anni.
La giornata lavorativa di una operaia come Jasmine nelle export processing zones cinesi inizia con estrema puntualità alle 8:00 del mattino: ogni minuto di ritardo è detratto dalla paga. Si lavora quasi ininterrottamente, con l’eccezione di una breve pausa per il pranzo, sino alle 19:00. Dalle 19:00 in poi inizia lo straordinario che nella maggior parte dei casi prosegue sino alle 2:00-3:00 del mattino, tutti i giorni. Rispettare i termini di consegna stabiliti dalle grandi multinazionali della distribuzione (grandi catene commerciali) è il mantra di tutti i medio-grandi imprenditori cinesi. A scapito di tutto, ed in particolare dei diritti e della dignità dei propri lavoratori e lavoratrici.
China Blue ripercorre a ritroso la strada compiuta dalla merce. Risale alla fonte per comprendere cosa ci sia realmente dietro parole come “delocalizzazione della manodopera” o “crescita esponenziale delle economie dell’estremo oriente”.
E interroga le nostre coscienze, ci costringe ad aprire gli occhi : ogni volta che compriamo un capo “cinese” e quindi “economico” per noi, dobbiano sapere che è costosissimo in termini di qualità della vita per chi lo produce. Così costoso da rimettercela, la vita.
Sarebbe da far vedere a tutti quelli che si lamentano dei cinesi e poi acquistano i loro prodotti. Come se le colpe fossero di un popolo e non del sistema economico che si è venuto a creare negli ultimi anni.