Definito a torto “l’unica terapia possibile contro i sintomi di astinenza da Dowton Abbey” (Allison Pearson) L’ereditiera americana di Daisy Goodwin ricorda in realtà i romanzi di Edith Wharton in cui l’autrice descrisse con dovizia di particolari, raffinatezza e sottile ironia l’Alta Società newyorchese di fine ‘800: in particolare i privilegi e le ostentazioni dei “nuovi ricchi”. Con altrettanta dovizia la Wharton descrisse i rapporti tra gli americani considerati più semplici e “innocenti” e gli europei più colti e raffinati ma più “corrotti”. Da qui, ne derivò la denuncia sociale che ebbe come protagoniste soprattutto le donne. Il romanzo della Goodwin (inglese) ha peraltro altre affinità con i romanzi della ben più famosa collega americana. La protagonista del romanzo, l’americana Cora (per la quale non è possibile non parteggiare) è ispirata alla ricca ereditiera Consuelo Vanderbilt a cui si ispirò per altro anche la Wharton per la protagonista del romanzo incompiuto I Bucanieriche Conchita Closson.
Come Consuelo Cora è totalmente dominata dalla madre la quale aspira per lei ad un matrimonio aristocratico e in effetti sposerà, ma per amore, il Duca di Wareham proprietario della tenuta di Lulworth. In quel periodo, erano molto frequenti matrimoni fra aristocratici europei e giovani ereditiere americane. Per i nobili del Vecchio Mondo queste unioni erano disonorevoli ma utili in termini finanziari. La nobiltà considerava gli americani come intrusi, indegni della loro nuova posizione. Così accade a Cora che per tutto il romanzo lotterà, per vedere riconosciuto il suo ruolo, con l’anziana suocera, ben più detestabile della vecchia Violet Crawley, contessa madre di Grantham in Dowton Abbey.
Per le cronache il matrimonio tra i due è l’equivalente di quello che potrebbe essere quello tra il Principe Harry e Paris Hilton e viene raccontato con dovizia di particolari, anche il corredo intimo di Cora (cosa che farà inorridire gli inglesi), da The Titled American così come su Match troveremmo la cronaca di quello dei nostri contemporanei.
Il romanzo è fatto per piacere: gli ingredienti sono la giovinezza e la notorietà, i soldi e il potere, gli amore sognati perduti e ritrovati, le piccole e grandi infelicità della vita, le dimore da sogno e i sogni di semplicità. Introduce anche elementi poco noti ed originali: ad esempio fa riferimento ai tatuaggi che stando alle cronache del tempo furono introdotti dal futuro George V e dal fratello e in seguito adottati anche dal Principe di Galles. La Baronessa suocera di Cora ha un serpente tatuato intorno al polso che, come dicono i più pettegoli, pare fosse diffuso tra le favorite del re.
Descrizioni molto dettagliate vengono fatte degli abiti indossati dalle protagoniste del romanzo. Si tratta per lo più di creazioni di The House of Worth fondata da Charles F. Worth che trasferì da Londra a Parigi la sua attività dove ebbe il successo che meritava al punto da venire considerato il padre dell’Haute-Couture.
Con altrettanza sapienza sono descritte le case. Il castello di Lulworth esiste veramente e conferma i miei timori. Al di là della magnificenza che affascinava le ragazze americane, la vita nelle case di campagne Inglesi era decisamente poco confortevole. Mancanza di impianti di riscaldamento , assenza di stanze bagno e conseguente acqua calda richiedevano lo “stiff upper lip” che oggi sembra aver abbandonato anche le ragazze inglesi dopo le confessioni della Principessa Diana e cioè la capacità di non lamentarsi, non piangere né fare scenate in pubblico, far vedere di che razza sono fatti gli abitanti di quell’isola.
Tra le tante stravaganze descritte nel romanzo, alcune devo dire incredibili, ne ho trovato due veramente disgustose. La prima a opera della madre di Cora la quale, per impressionare i suoi ospiti, commissiona colibrì dipinti d’oro che vengono liberati all calare delle tenebre . L’uomo incaricato di questa crudeltà così si esprime in proposito:
“Mi hanno ordinato di farli tutti d’oro. Non è stato facile. Ai colibrì non piace essere dipinti. Alcuni si sono lasciati andare, si sono dati per vinti, e hanno smesso di volare.” Quando tutti gli ospiti sarebbero stati ancora seduti a tavola, a mezzanotte, li avrebbe liberati nel giardino d’inverno, come una fontana di zampilli dorati. Sarebbero stati l’unico argomento di conversazione per una decina di minuti. I giovanotti avrebbero cercato di catturarli per offrirli in dono alle fanciulle che corteggiavano. Le altre dame di società del circondario avrebbero pensato, non senza un pizzico di malevolenza, che Nancy Cash avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di impressionare i suoi ospiti, e il mattino dopo le cameriere avrebbero spazzato via i corpicini dorati facendone un unico mucchietto.
L’altra si riferisce al pranzo organizzato da Cora per il Principe di Galles.
Un valletto entrò con un vassoio su cui s’era un congegno con una grossa vite su un lato. Teddy pensò che potesse essere una pressa da sidro, ma dai mormorii eccitati che si diffusero tutt’intorno capì che doveva essere un tritacarne e che stava per essere servito il Canton à la Rouennaise, una prelibatezza particolarmente apprezzata dal Principe. Teddy rimase a guardare mentre il maggiordomo girava la vite dell’ingranaggio e raccoglieva il sangue in un vasetto d’argento. Odo Beauchamp precisò: “Sapete, gli anatroccoli vengono soffocati, così non va perduta neppure una goccia di sangue”.
La ricetta della Canard a la presse fu ideata agli inizi dell’800 da un ristoratore di Ruen e divenne famosa nel 1929 alla Tour d’Argent a Parigi. Il proprietario, Frédéric Delair, era considerato un artista e divenne famoso tra i viaggiatori Americani ed Inglesi proprio per questa preparazione rituale. Lui stesso eseguiva il “rito” e le persone ai tavoli deponevano le posate e rimanevano affascinati a guardarlo, insieme ai camerieri, mentre sfilettava i volatili (che erano numerati), metteva la carcassa nella pressa d’argento, mescolava la scura e saporita salsa, e la serviva sui teneri filetti.
Non sono mai stata a la Tour d’Argent ma adoro il paté e quando sono stata nel Luberon non me lo sono fatto mancare. Certo, con un po’ di rimorso perché le anatre che serenamente sguazzano nelle acque verdi de La Sorgue hanno l’aria fiduciosa e inconsapevole.
Esprime bene questo sentimento Peter Mayle in Un anno in Provenza.
Di Faustin, sapevamo che gironzolava per le cascine lì attorno, come macellaio volante: sgozzava o tirava il collo a conigli, anatre, maiali, oche, così da trasformarli in terrines, confites e prosciutti. Ci sembrava una strana occupazione per un uomo tenero di cuore, che viziava i suoi cani; ma evidentemente era svelto e abile e, da bravo contadino, non era sentimentale.Noi potevamo trattare un coniglio come una bestiola domestica o essere pateticamente affezionati ad un’oca ma venivamo da città con supermercati , dove la carne da cibo era igienicamente spogliata da ogni sembianza di essere vivente. Qui in campagna invece, non era possibile ignorare il passaggio diretto fra la morte e la tavola.
Tornando al romanzo, tutto è bene quel che finisce bene e Cora e il Duca vissero felici e contenti. Per quanto mi riguarda il finale è esattamente ciò che amo dell’Inghilterra e della Scozia .
Da quando era arrivata in Inghilterra aveva imparato a godere delle rare giornate di sole, quelle giornate che irrompevano d’improvviso tra la foschia e il cielo plumbeo, e ad amarle per la loro imprevidibilità. Si poteva comprare un clima più gradevole, pensò, ma non quella sensazione di gioia inattesa provocata un raggio di sole che, filtrando dalle tende, prometteva l’arrivo di una giornata sfavillante.
E in fondo perché no della vita. Come disse Edith Wharton la mia scrittrice preferita appunto
Ci sono sempre nuovi Paesi da visitare, nuovi libri da leggere (e, spero, da scrivere); mille piccole meraviglie quotidiane di cui stupirsi e godere…Il mondo visibile è un miracolo quotidiano per coloro che hanno occhi e orecchie.