Si prospetta un altro weekend ferroviario. Per la terza volta in una settimana aspetterò un treno. Aspetterò una meta che vale il viaggio. E per non sprecare il tempo del viaggio leggerò. Resistendo alle immagini. Tempo salvato appunto.
In stazione spegnete lo spot. Voglio leggere (”Avvenire”, 1/8/2010)
di Mario Iannaccone
Il tempo trascorso nelle stazioni ferroviarie è, per definizione, un tempo perso. Si attende un treno vivendo in un vuoto. Ma non per il viaggiatore frequente, il pendolare, che sia anche, per avventura, lettore allenato. Per questa specie, la stazione è un teatro propizio, se non proprio ideale, alla lettura. Costui sa che le letture dell’attesa ferroviaria hanno qualcosa di particolare: il senso di un tempo strappato allo spreco, un tempo riscattato, con fatica, magari seduti su una scomoda panchina o in piedi in mezzo al viavai. Un tempo comunque salvato alla noia e forse destinato a sopravvivere nel ricordo quando si ha la fortuna d’imbattersi in pagine felici o memorabili. Nella mia memoria di lettore e frequente viaggiatore conservo esperienza di autori che mi sembra d’aver letto (ma sarà così?) quasi esclusivamente in treno, come Ray Bradbury e Tommaso Landolfi, Benedetta Craveri e Riccardo Bacchelli.
Seduto, o più spesso in piedi, lungo le banchine e nei corridoi, il viaggiatore frequente legge trasformando l’attesa grigia nel tempo felice o felicissimo della lettura. Non sarà più così. Le ferrovie italiane hanno iniziato a ristrutturare le stazioni rendendole più belle, fornendole di nuova illuminazione, più servizi e comodità. Ciascuna di queste comodità, però, viene concessa in cambio di un’esazione subdola ed esigente che renderà assai più difficile ritagliare l’attenzione più propizia alla lettura. In ogni atrio, corridoio di passaggio e banchina vengono installati, in questi anni, grappoli di monitor ultrapiatti a sparare ad ogni ora del giorno e della notte spot pubblicitari, sempre gli stessi, ad alto volume. Pochi gli angoli dove si può trovare scampo, perché gli architetti hanno fatto in modo che non ci sia un punto nel quale il sonoro non rimbombi, le immagini coloratissime non brillino, fulgide, anche in pieno giorno. È una vera e propria violenza al diritto alla rêverie nei luoghi pubblici. Il processo, almeno a Milano, ha interessato anche le banchine della metropolitana, luogo certo meno adatto ai naufràgi letterari ma comunque non disprezzabile. Anche qui, maxischermi ci aggiornano, minuto per minuto, a volume altissimo, su notizie, meteo e indici di borsa mentre attendiamo i convogli e magari vorremmo stare per qualche minuto con i nostri pensieri o intenti alla nostra paginetta che resta lì, aperta, irraggiungibile all’attenzione.
La società dell’informazione ci assedia. Protestare è come cercare di fermare un’epidemia d’influenza in dicembre. I libri rischiano di restare chiusi, ormai, anche dentro alle carrozze ferroviarie se abbiamo l’ahimé frequentissima ventura di sederci nei pressi di qualche stolido produttore di ciance da cellulare. Non resta dunque che ricorrere a cuffie e auricolari, magari per ascoltare libri in audiobook, una grande invenzione (il ritorno al racconto orale) oggi potenziata dai formati mp3.
Forse il lettore da stazione non sparirà, questo no, ma non sarà mai più lo stesso.