Il Nobel a Bob Dylan: c’è chi dice no.

Scrivo oggi quello che avrei voluto scrivere ieri, ma mi sono censurata per non scrivere sull’onda dell’entusiasmo per il Nobel a Bob. Sinceramente non lo avevo neppur considerato tra i papabili, ma il fatto che sia stato scelto mi ha ridato un briciolo di entusiasmo giovanile che il vento che ci gira intorno mi aveva tolto. In tanti, mi limito all’Italia, hanno commentato negativamente soprattutto nel mondo letterario e la cosa non mi sorprende: siamo un paese di santi, poeti e navigatori. E rosiconi, soprattutto i secondi, categoria nella quale comprendo i tanti, sempre di più autori di romanzi di cui cui sinceramente non si sentiva il bisogno. Vi pare che Ungaretti, seppur  sia stato un gigante, abbia veicolato messaggi rivoluzionari, controcorrente, che hanno avuto risonanza mondiale?  E per il Nobel a Elfriede Jelinek (2004) qualcuno ha fatto osservazioni? No, eppure credo che i più la ignorino. Io tra quelli. In tutto il resto del mondo scrittori di fama, questi sì, internazionale si sono compiaciuti. Ed è il primo Nobel ad un americano dal 1993.

Voglio credere che il Nobel a Dylan, oltre che per il valore poetico dei suoi testi, sia un riconoscimento anche ad una certa di idea di mondo e valori contrari all’avanzata dei partiti populisti e xenofobi, soprattutto in Europa. E che abbia quindi anche un valore politico che, a meno di un mese dal voto negli Stati Uniti, porti “buon vento” per l’elezione di Hilary Clinton. O almeno spero.

Del resto l’elezione di una donna alla Casa Bianca è qualcosa di assolutamente rivoluzionario, un segnale di cambiamento , già iniziato con Obama anche se ci sarebbe da discutere sui contenuti della Presidenza.

Chi meglio di Bob ha cantato i diritti civili, il pacifismo and so on? Certo non l’ha fatto da solo ma ne è divenuta l’icona. Vi siete mai soffermati sulle differenze tra il pubblico del Newport Festival (1964) che lo rese famoso ( quando ne rivedo le immagini mi commuovo, pensa te, perché avrei voluto essere lì, tra quei giovani dalle facce pulite e abiti ordinati che avrebbero mandato all’aria il mondo ).

 e quello di Woodstock (1969) a cui lui non partecipò pur vivendo lì, o a quello dell’Isola di Wight a cui invece partecipò qualche giorno dopo

Dylan stesso è l’immagine stessa del cambiamento, a cui non si è mai sottratto . Sono stata nel 2013 al suo concerto agli Arcimboldi. Ci sono andata con lo spirito del pellegrino, per rendere omaggio ad un uomo, talvolta poco gradevole bisogna dirlo (durante il suo concerto ieri a Las Vegas non ha fatto alcun riferimento al Nobel)   a cui sono rimasta fedele per tutta la mia esistenza. In molti sono rimasti delusi, forse sono gli stessi che oggi lo criticano. O invece no, solo per dire io c’ero. Sul palco più ombre più che luci, nessun vip per fortuna in prima fila, tanti stranieri, minacce in caso di foto (peraltro da molti non rispettate), parole incomprensibili, nuove versioni, l’armonica sì la riconosci, gli insoliti ringraziamenti, niente cappello, la mano sul fianco, pericolosi ondeggiamenti nei 2 minuti a luci accese.  Ho riconosciuto Blowing the Wind dal testo, non dalla musica, solo perché lottando con un aggressivo gigante della security sono riuscita ad avvicinarmi al palco e avevo le orecchie appiccicate alle casse.   Cosa è rimasto del Dylan di un tempo, di noi, di “quel” tempo? Se volevo “quel” Dylan rimanevo a casa ad ascoltarmi un vinile, ad oggi un po’ gracchiante come la sua voce. Avevo  comprato un biglietto per quello che è. Più che un concerto, un pellegrinaggio, un atto di fede, quella sì rimasta immutata nonostante , yes, i tempi. Che continuano a cambiare. Quello che  Bob è stato è nella storia. Oggi più di prima.

 

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