Valley of Sorrow, 13 agosto 1935

Valle di Dolore. Così la stampa americana definì la Valle dell’Orba dopo la distruzione conseguente al crollo della Diga di Molare il 13 agosto 1935. 111 morti ufficiali, diventati tra i 250 e i 1000 nella cronaca dei fatti sui quotidiani che informavano del disastro i nostri connazionali emigrati in Indiana, Ohio, Pennsylvania e Distretto di New York.
L’articolo più esteso apparve sulla Charleston Gazette, giornale della West Virginia,  il giorno di ferragosto: l’evento venne paragonato per dimensioni solo al terremoto del 1932 in Sicilia.
Ai soccorritori, fascisti viene precisato, provenienti da Torino, Genova e Alessandria si presentò l’orrendo spettacolo di una valle, un tempo tranquilla, trasformata in un mare di fango sulla cui superficie sembravano essere stati lanciati tetti, corpi, alberi sradicati.

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La valle rurale , un tempo sonnecchiosa, è ora una distesa di acque turbolente con isole di fango e sabbia…orti, giardini fioriti, vigneti rigogliosi arroccati sui fianchi delle montagne sono scomparsi. Case, cassapanche, letti, materassi, tutte le cianfrusaglie raccolte in una vita domestica, ora distrutta, galleggiano sull’acqua, come carrozzoni diretti chissà dove.”


Nell’articolo si dà conto anche della visita del Re Vittorio Emanuele III, partito in tutta fretta dalla casa di montagna dove stava trascorrendo le vacanze estive. Spintosi fin dove era possibile, dovette arrendersi in prossimità di uno dei ponti crollati. Naturalmente venne accolto ovunque da applausi.

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Le vittime furono , perlopiù, donne e bambini colti di sorpresa nelle case o nel sonno mentre padri, mariti e fratelli erano al lavoro nei campi o nelle fabbriche. Bambini smarriti, terrorizzati, orfani vennero radunati in un edificio e amorevolmente assistiti dalle infermiere della Croce Rossa. Una grande mensa allestita in tutta fretta portò un po’ di sollievo ai sopravvissuti. Centri di primo soccorso furono allestiti in attesa di poter trasportare i tanti feriti negli Ospedali delle città più vicine.

Anche Nature, una delle più antiche ed importanti riviste scientifiche tuttora esistente, se ne occupò. Lo fece con il taglio che le era consono, senza eccedere in retorica. Ne attribuì la causa scatenante alle piogge insistenti di quei giorni rilevando però che si trattò di “Uno di quelli avvenimenti calamitosi che, di volta in volta, mostrano la fallibilità del giudizio umano nella costruzione di grandi opere, che ha sprofondato il nord Italia nel lutto e nella desolazione”.

In Reading Times di Reading, Pennsylvania,  trovo la frase che mi da il pretesto per introdurre la foto, fino ad oggi inedita, che ho acquistato di recente da un collezionista della California. “ Camice nere fasciste e soldati dell’esercito regolare sguazzano nel fango tragico, combattendo una battaglia pacifica per alleviare le sofferenze di centinaia di abitanti abbandonati. I luoghi di raccolta sono gremiti di feriti, e del dolore dei parenti delle vittime e dei dispersi”.

La foto fu scattata davanti all’Ospedale Civile Sant’Antonio di Ovada. Sulla soglia del cancelletto secondario semichiuso un militare si guarda intorno: ha di fronte un gruppo di uomini, alla sua sinistra un ragazzino e due bambine, dell’apparente età di 8-10 anni. Forse è stato messo di guardia, a presidio della tranquillità delle operazioni di soccorso o di riconoscimento.

diga ospedale no riproduzione

Sul retro della foto l’Agenzia Fotografica ACME riporta che trattasi di “ parenti ansiosi in attesa di notizie davanti ad un presidio militare”. Quello che colpisce, che ha colpito me, è l’estrema dignità delle persone raccolte. La loro immobilità accentua il peso del momento. Appaiono rispettose del limite, forse semplicemente attonite. Ordinate. Anche negli abiti. Gli uomini indossano abiti interi, difficile dire se estivi o invernali. Le scarpe appaiono pesanti e polverose. Le bambine potrebbero essere sorelle, visto la somiglianza del taglio di capelli e dell’abito. Che forse però erano gli stessi per molte in quegli anni. La pelle, scurita dal sole, tradisce la provenienza popolare. La più grande ha il volto scarno e teso, sembra consapevole della gravità di quanto è accaduto.

Quando vado al cimitero allungo il giro sino alla zona in cui sono sepolte le vittime del nostro piccolo Vajont.
Lo faccio dopo aver sfilato davanti a file di loculi tutti uguali: lastre di marmo bianche, le stesse lampade, gli stessi caratteri per tutti. Anche i fiori veri e i fiori finti quasi non li distingui più. Qualcuno oggi azzarda una sigaretta, un pupazzetto, cercando di strappare il proprio caro all’anonimato. Non apprezzo questo genere di esternazione, ma il dolore richiede rispetto. Mi piacciono invece, per quanto possibile, le tombe della diga. Ricche e povere. Con le loro frasi retoriche, la richiesta di vegliare sui parenti rimasti in vita, le famiglie riunite. Sarebbero piccole “Spoon River”, se non fosse che del defunto tratteggiano solo il lato migliore. Del resto è di questo che sono fatti i cimiteri: persone insostituibili. Almeno alcune. Almeno per un po’.

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I fatti http://www.molare.net/

L’articolo di Paolo Rumiz apparso su La Repubblica del 26 agosto 2011 http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/08/26/news/ovada_rumiz_24-20739936/

L’articolo di Wanda Walli apparso su La Repubblica il 13 luglio 2014 http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/07/13/come-il-vajont-ottantanni-fa-a-molare-e-ovada-il-disastro-della-digaGenova11.html

l’Album di Repubblica http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/08/25/foto/vajont-94438523/1/

Il libro della’Accademia Urbense http://www.archiviostorico.net/libripdf/Diga_Molare.pdf

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5 risposte a Valley of Sorrow, 13 agosto 1935

  1. Luigi Bartolini ha detto:

    Complimenti! Corredato di foto ora il pezzo di effetto.
    Sei gia’ stata alla “Diga vecchia”?

  2. Luigi Bartolini ha detto:

    Se vuoi ci si puo’ fare un salto……è un giro di 2/3 ore

  3. Luigi Bartolini ha detto:

    Fammi sapere quando ti verrebbe bene……

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